La realizzazione di quest’opera è stata resa possibile grazie al sostegno di:

Ristorante-pizzeria-steakhouse-Bar Anny – Marlengo,

Alm-Gasthof-Appartements Gampl – San Vigilio,

Happm Pappm – Marlengo,

Landhandel Inderst – Marlengo.

2016

Tutti i diritti riservati

© by Athesia SpA, Bolzano

Titolo dell’edizione originale: “Meine Seele weint”

Traduzione dal tedesco: Mike Frajria

Revisione: Milena Macaluso

Illustrazioni: Jochen Gasser per l’iniziativa “Meine Seele weint”

Foto dell’autrice di: Olga Schuster #An Guane

Design e layout: Athesia-Tappeiner Verlag

Stampa: Athesia Druck, Bolzano

Books on Demand GmbH

ISBN 978-8-8683-9149-2

www.athesialibri.it

casa.editrice@athesia.it

Maltrattati nella propria famiglia,
ignorati dalla società!

Indice

Prologo

Nell’ambito della mia attività di esperta in pedagogia sociale, incontro ogni giorno bambini e giovani in situazioni critiche che sono all’origine di disturbi emozionali e affettivi, di diverse forme di aggressività o auto-aggressività e persino di totale perdita di controllo. Molti di loro non sono in grado di descrivere a parole quel che accade nel loro intimo, che cosa li spinga a comportamenti che forse non vorrebbero neppure adottare. Nell’ambito sociale riscontro sovente mancanza di comprensione a questo riguardo. “Non sarà mica un modo di comportarsi!”, oppure “Quelli, in fin dei conti, stanno troppo bene!” sono frasi che mi giungono frequentemente alle orecchie. I più non conoscono l’origine di questo problema; non si rendono conto di quali dolorosi antefatti si celino dietro determinate forme comportamentali. La mancanza di comprensione intensifica ulteriormente il problema, poiché la persona colpita si sente respinta, anziché presa in considerazione, accolta o sostenuta. Il bambino, poi, è ancora comunicativamente limitato, soprattutto se la causa del problema si trova in seno alla propria famiglia, dove non ha mai imparato a parlare di problemi o, più semplicemente, non c’è chi lo ascolti. Esiste, spesso in sovrabbondanza, stampa specializzata per quasi tutti i temi pedagogici e psicologici, ma per il profano, per chi non sia provvisto di una preparazione specifica, questo tipo di letteratura è sovente incomprensibile, come se si trattasse di una lingua sconosciuta. Per questo motivo voglio offrire, sia ai profani che agli “addetti ai lavori” una visuale della vita dell’anima di un bambino sottoposto a situazioni di stress. Voglio illustrare l’origine di determinate problematiche e le dinamiche che ne possono scaturire. Aspetto positivo dell’argomento: esistono diverse forme di terapia, ma non posso nascondere che “riprogrammare” un’anima, vittima di esperienze traumatiche, è una vera e propria impresa.

Il tema della violenza occupa una posizione eminente ed è onnipresente nei media: eppure talvolta ho la sensazione che i messaggi non raggiungano del tutto la sfera consapevole del pubblico. Disponiamo di un gran numero di cifre e statistiche, ma in realtà il problema non ci tocca realmente. Una volta, alle scuole superiori, un mio compagno mi ha deriso perché avevo dichiarato che in Alto Adige sono molte le famiglie in seno alle quali il comportamento violento tra i singoli membri è all’ordine del giorno; che esistono famiglie in cui si esercita repressione su alcuni dei membri. Il mio compagno disse che probabilmente guardavo troppi programmi televisivi.

I numeri si relativizzano. Il problema maggiore in Alto Adige è che il pudore di parlare liberamente di problemi, soprattutto di quelli familiari, è sempre ancora molto radicato. Ritengo sbagliato che nella nostra società passi per educazione “non intromettersi” nei problemi degli altri. Ne risulta che la violenza, sia essa fisica, psicologica, sessuale o il condizionamento finanziario, passino sotto silenzio e proteggano in tal modo i colpevoli, offrendo loro, in un certo senso, un lasciapassare per il loro agire. Quando un episodio molto grave viene reso pubblico, sono in molti a sostenere che “loro lo sapevano da sempre”. A questo punto mi domando – e la cosa mi rattrista – come mai nessuno sia intervenuto prima. La struttura delle campagne di sensibilizzazione è poco efficace: con slogan sensazionalistici si citano numeri e fatti e si sottolinea la necessità di agire. I numeri, però, si dimenticano in fretta e raramente ci toccano il cuore. Ma proprio questo sarebbe indispensabile per produrre dei cambiamenti.

Quali opportunità sono date a un individuo la cui fiducia è stata spezzata sin dall’inizio? Come può stabilire una relazione, vivere felice e sereno, riporre fiducia nel prossimo, l’individuo del quale è stata mutilata per sempre l’anima nella propria famiglia, in seno alla quale dovrebbe trovare, invece, protezione e sicurezza? La parola “mutilazione” non è casuale. Per la persona colpita, le conseguenze a lungo termine sono disastrose. Le ferite fisiche guariscono, rimangono però quelle emozionali che sono irreversibili.

Ecco, ora, un altro aspetto spesso sottovalutato: anche se la violenza fisica colpisce direttamente un solo membro della famiglia (violenza tra partner o simili), la pressione psicologica è pur tuttavia immensa anche per il resto della famiglia. Per molto tempo, la pressione esercitata indirettamente, soprattutto sui bambini testimoni di atti di violenza attiva o passiva, non è stata riconosciuta e presa in considerazione neppure dagli esperti. La responsabile di un corso nell’ambito di un incontro specialistico per case di tutela della donna, ha dichiarato che uno dei metodi di tortura più crudeli durante la guerra, era di costringere la vittima ad assistere al maltrattamento di una persona cara. Alla luce di questa informazione, si pensi alla situazione di un bambino che deve assistere, spesso regolarmente, alla violenza tra i genitori.

Per i motivi ora citati voglio illustrare una storia tutt’altro che “indefinita”. Il protagonista è un individuo, una bambina, una persona concreta. Ho deciso di muovere questo passo per rappresentare tangibilmente la violenza in famiglia. Per molte persone in Alto Adige come nel resto del mondo, questa è una realtà all’ordine del giorno. È un dato di fatto che – a dispetto dell’attività dei servizi sociali che offrono sostegno a molti bambini e adulti – rimangano sempre ancora nascosti troppi destini di persone maltrattate nelle famiglie, ma trascurate dalla società.

Questo libro non intende riferire realisticamente i fatti descritti: è possibile che la cronologia del seguente racconto non corrisponda al cento per cento alla sequenza reale dei fatti, data la mancanza di una documentazione precisa a riguardo. È altresì possibile che i ricordi della prima infanzia siano stati confusi con racconti di altre persone. Ciononostante ho deciso di offrire una documentazione in base alla mia personale percezione poiché le sensazioni/sentimenti e le conseguenze personali che ne sono nate, erano reali sin dall’inizio.

Prefazione

Niente e nessuno potrà mai giustificare il comportamento violento o abusante di un uomo nei confronti di un bambino né di una donna all’interno e all’esterno delle mura domestiche

I traumi piscologici, le ferite dell’anima di un bambino, vittima di violenza e trascuratezza, non guariranno mai. Si potranno chiudere, superare, elaborare attraverso lunghe terapie; ma guarire mai. Noi del Consultorio per Uomini della Caritas (Caritas Männerberatung) abbiamo iniziato a occuparci del tema alcuni anni fa guardando la complessità del problema da un’altra prospettiva e cioè quella dell’uomo.

Nessun tipo di giustificazione nei confronti di chi agisca violenza (Täter) o minimizzazione del suo comportamento ma un tentativo di offrire a questi uomini uno spazio dove affrontare il loro problema e la loro incapacità di gestire la rabbia. L’obiettivo del nostro Training Antiviolenza, attivato nel 2011, è quello di aiutare questi uomini a riflettere su sé stessi affinché assumano la responsabilità delle proprie azioni e sviluppino una maggiore consapevolezza relativa al proprio comportamento violento. Quando parlo con gli uomini del lavoro che faccio, c’è sempre una reazione di distanza da ciò che dico, come se la cosa non li riguardasse.

Occuparsi dell’uomo maltrattante significa, per noi, cercare di tutelare e proteggere maggiormente le donne, attraverso la presa in carico dell’uomo che agisce condotte violente. Occuparsi dell’uomo significa, anche, cercare d’impedire che continui ad agire comportamenti violenti verso le donne.

È necessario parlare degli uomini, non descriverli solo come mostri, come molti vorrebbero, ma di uomini che necessitano di un aiuto!

Il libro sottolinea l’importanza di parlare e denunciare socialmente le esperienze di violenza subita – e il coraggio di Monika è un esempio da imitare. Attraverso il suo racconto, ognuno potrà capire l’importanza di denunciare le violenza subite e urlare il proprio diritto a reagire e a voler vivere.

Ma questo libro è utile anche per gli uomini, che potranno comprendere i danni derivanti da un comportamento violento e accettare che dal circolo della violenza si possa uscire.

Leggendo il libro la mia motivazione a voler continuare a lavorare con gli uomini violenti è aumentata e, di ciò, ringrazio ancora una volta Monika!

Dott. Massimo Mery

psicologo e psicoteraopeuta nel consultorio per Uomini della Caritas

Introduzione

Mi sveglio di soprassalto come morsa dalla tarantola e mi rizzo nel letto. Il mio cuore batte all’impazzata come se volesse aprirsi dolorosamente un varco attraverso il petto. Tendo l’orecchio per captare ogni alito d’aria, sento il mio stesso sangue scorrere frusciando nelle vene. Non ho il coraggio di respirare, trattengo il fiato. Maledizione! Premo le mani sul petto come per far tacere il forte martellare del cuore. Gli occhi spalancati scrutano disperati il buco nero della notte. Devo correre in soccorso? Cosa sta succedendo? Espiro piano per non far rumore e sento che mi tremano le mani.

“Su, coraggio!”, mi impongo mentalmente, ma il corpo s’irrigidisce ancora di più. Quando mi abituo al silenzio, odo il respiro regolare proveniente dalla camera accanto. Sembra che dorma, quindi vive. Poi sento un respiro più profondo, più pesante, un’espirazione più forte: dorme anche lui. Pian piano, quasi impercettibilmente, la tensione lascia il mio corpo. Sono sfinita. La parte superiore del mio corpo s’inclina lentamente e si adagia sul cuscino, ma sussulto ancora due volte per accertarmi che tutto sia veramente tranquillo. Solo adesso mi accorgo che mi duole la schiena. Sprofondo nel letto; gli occhi si chiudono ben presto, ma guizzano dietro le palpebre chiuse, si muovono inquieti in un brutto sogno. Le orecchie sono all’erta fino a mattina, pronte a mettermi in guardia e scuotendomi dal sonno in ogni momento.

Per tutti quelli che sono sempre stati presenti per me, anche quando non me ne potevo accorgere.

Soprattutto per la mia madrina e la mia mamma

Primo

“Perché piangi mamma?” Sono ferma sull’uscio, devo tendermi in alto per tener ben salda la maniglia, i miei occhi si dilatano inorriditi. La mamma è appoggiata con la schiena al fornello e piange. Appena mi vede nasconde il viso dietro il palmo delle mani. “Non è niente”, dice con voce piatta: “Tutto a posto!” Ma allora perché piange? Mi sento strana. La mamma non ha mai pianto. Il mio sguardo corre verso il papà che indietreggia di un passo, poi guardo la mamma. Passano alcuni secondi. Il papà si avvicina alla mamma, la abbraccia brevemente e dice a voce bassa: “Mi dispiace! Non succederà mai più.” Poi esce.

La mamma si volta e prende a mescolare in una pentola.

Un senso di oppressione si propaga nel mio petto, ma non capisco. La mamma ha detto che è tutto a posto. Cerco di sottrarmi pian piano a questa situazione, cerco di muovere i piedi, di rivolgere altrove il mio sguardo. Mi volto, vado a prendere la mia bambola in camera da letto. Avrà certo bisogno di me, ora; credo che sia triste. La prendo in braccio per consolarla, la stringo al petto. “Pssst …”, le sussurro. “Non devi aver paura; va tutto bene.” Cullo delicatamente la bambola, su e giù, le do dei bacetti in fronte, continuo a parlottare tra me e me. Con la guancia le accarezzo delicatamente il viso; le mie piccole braccia la sorreggono e la proteggono. Sono assorbita dal mio gioco che però non è un gioco. Mi prendo cura della mia bambola. Sembra che si calmi pian piano. Sono certa che è felice di avermi. Lentamente svanisce la sgradevole sensazione insieme ai pensieri di questa strana circostanza. Le settimane successive tutto torna normale, tutto va bene.

*

Il mio fratellino è morto improvvisamente. Non capisco che cosa voglia dire “morto”. Vedo solo che molta gente va su e giù nervosa per la casa. Vicini, parenti. Alcuni piangono, tutti hanno uno sguardo triste. Nessuno ride. Mi faccio largo tra la gente fino al bebè e trovo strano che non si muova. Ha un aspetto diverso dal solito. Probabilmente sta solo dormendo; penso almeno. Forse gli adulti esagerano col loro comportamento. Mi spingono da parte, mi sento esclusa. Respinta da tutti: decido di sparire.

Ancora non so che non giocherò mai più col bebè. Ho appena due anni. È per questo che non capisco dove sia finito il bebè, neppure nei giorni successivi. In casa domina un grande silenzio. Certo dà fastidio quando il bebè piange e la mamma se ne deve occupare, ma è brutto anche senza bebè. E poi mi sto annoiando; mi sento molto sola. Sono profondamente triste, ma non lo dico a nessuno. Continuano a parlare di “morte improvvisa del neonato”, ma non so cosa voglia dire. Il papà ce l’ha con la mamma, talvolta la sua voce è dura quando parla con lei. Che la mamma abbia nascosto il bebè…?

Non capisco, ma mi incammino. I miei fratelli più grandi sono all’asilo poco distante da casa nostra; basta attraversare il prato. Penso che andrò lì; forse mi lasceranno giocare con loro. In tutto il mio entusiasmo non mi accorgo neppure di indossare solamente un pannolino. Me ne avvedo solo quando arrivo all’asilo con tutti che mi guardano stranamente. “E tu cosa ci fai qui?”, esclamano sorpresi i miei fratelli. Non sembrano particolarmente felici di vedermi. “Dov’è la tua mamma?”, mi chiede la tata dell’asilo. “Sono venuta a giocare “, esclamo orgogliosa, felice di non essere più sola, e corro veloce nella stanza dove ci sono i cubetti e comincio a giocare.

Che bello stare con tutti questi bambini! Ben presto, però, compare sull’uscio la mamma. “Ah ecco dove ti eri cacciata, accidenti!”, esclama sollevata. E dove credevi che fossi? Sempre questi guastafeste… proprio adesso che sto giocando. La mamma vuole che torni a casa con lei. Ma lì nessuno s’è mai curato di me. Cosa ci dovrei fare a casa…? Nei giorni successivi, faccio altri tentativi di fuga dalla solitudine: una volta corro per tutto il paese fino alla fontana, un’altra volta nuovamente all’asilo per giocare. Ma senza successo; così torno a casa… più o meno volontariamente.

Ora, un anno dopo, qualcosa è cambiato: abbiamo un altro bebè. Forse la mamma non è riuscita a ritrovare quello di prima.

Il nuovo arrivato è carino. È un maschietto, come il bebè di prima. Spesso sgattaiolo di nascosto nella camera da letto della mamma per vederlo dormire. Talvolta scuoto il lettino e se per caso si sveglia, chiamo subito la mamma. Per fortuna sono stata attenta; la mamma forse non si sarebbe accorta che s’era svegliato. Mi diverto un mondo a fargli il solletico al pancino; lui ride che è uno spasso, ma solo per poco, perché se gli faccio il solletico più forte, comincia a piangere. Che sciocchino! Un attimo fa lo trovava ancora divertente… La mamma lo solleva e lo stringe al petto per consolarlo. Splendido! Così io rimango sola e mi siedo imbronciata sul letto della mamma.

*

Adesso ho l’età per andare all’asilo. Finalmente! Era ora! Mi piace star lì. Faccio lavoretti e disegno. Grazie ai miei fratelli grandi che mi hanno insegnato molto, in certe cose sono più avanti della maggior parte degli altri bambini. So già maneggiare perfettamente le forbici e lo vado a dimostrare subito coi miei capelli. Zic e zac! Via la frangetta dalla fronte! La tata però non sembra molto d’accordo; i bambini, invece, lo trovano divertente. Ogni tanto cerco di star vicina alla maestra d’asilo senza che se ne accorga; vorrei che ogni tanto si occupasse anche di me. Del resto gli altri bambini non sono autonomi come me. Inoltre sono sempre stata la più grande del gruppo. I piccoli devono essere seguiti di più, devono essere sostenuti e accuditi. La tata arriva e mi sgrida solo quando la faccio grossa. Vorrei che fosse più gentile con me. Ma è tanto difficile?

Presso l’alveare sul prato davanti all’asilo un’ape mi punge sulla mano. Fa un male cane, ma non dico niente. Perché dovrei? Passerà: io sono forte. Gli altri bambini se ne sono accorti e corrono gridando dalla tata. Quando tornano, hanno smesso di gridare, alzano le spalle e mi dicono che non è stata un’ape a pungermi perché altrimenti piangerei. A dire il vero, sono perplessi; non capiscono come mai poco prima hanno visto il pungiglione penzolare dalla mia mano insieme all’ape.

“Io non piango”, rispondo secca e torno al mio gioco per non avvertire il dolore pulsante nella mia mano.

*

Adesso ho quattro anni. Oggi andrò in piscina con papà. Sono agitata e non sto nella pelle dalla gioia; non riesco proprio a star seduta tranquilla. Finalmente è il momento di imparare a nuotare. Il mio papà è il migliore dei maestri: non c’è nulla che io desideri di più che trascorrere il tempo con lui. È divertente e pieno di affetto. Sono “la sua bambina”. Talvolta mi tocca il naso con la punta del suo naso e, per dispetto, mi passa con la barba ispida di tre giorni grattugiandomi la guancia. Io mi piego dal gran ridere. “Vedrai! A forza di sfregare, crescerà la barba anche a te!” Non riesco a smettere di sbellicarmi dalle risa. Una bambina piccola con una barba nera! Troppo divertente.

Poi ci scateniamo e facciamo la lotta perché sono già molto forte. Mi piacciono troppo questi dispettucci. Poi appoggio i miei piedini sui piedoni di papà. Ci capiamo al volo e senza dire una parola mormoriamo la melodia del Valzer Viennese. Il papà muove le gambe al ritmo della melodia e insieme balliamo lungo il corridoio. Rido con gli occhi luccicanti guardandolo da sotto in su. Sono troppo felice, voglio tanto bene a papà. “Il mio papà.”

Dopo il nostro balletto mi siedo affamata e sfinita, al tavolo della cucina e lo osservo mentre, in quattro e quattr’otto, prepara la pasta della pizza con mani esperte. Non c’è nulla che non sappia fare. Sotto le sue mani, una palla di pasta si trasforma in un disco che lui fa roteare velocemente, una, due, tre volte. Poi lo sistema sulla teglia e in un batter d’occhio ecco guarnita una bella pizza. Non molto dopo, una fragranza appetitosa si espande in cucina e mi fa venire l’acquolina in bocca. Il papà racconta una storia alla quale, ovviamente, ha assistito personalmente. Un uomo, uno straniero, ha voluto provare a far ruotare in aria la pizza come sa fare lui. L’uomo si meravigliò nel non veder più tornare giù la pizza. Solo poco dopo, si accorse di cosa fosse successo. La pizza era rimasta attaccata a un chiodo infisso nella parete sopra la sua testa. Io ricomincio a ridere come una matta. È troppo divertente il papà quando racconta storielle comiche! Poi mi fa l’occhiolino e aggiunge: “Ce n’è solo uno, un’unica persona brava come me, ma abita molto lontano, forse in Cina o in America.” Lo guardo con tanto amore e ammirazione mentre taglia grandi fette di pizza che pone sui nostri piatti. A questo ci credo: il papà è l’uomo più intelligente e abile del mondo. Conosce e sa fare semplicemente tutto. Con grande appetito cominciamo mangiare la pizza migliore del mondo. E poi andiamo in piscina. Che giornata fantastica!

Ma non sempre le cose vanno secondo i piani. È già successo altre volte che non potevamo fare come avevamo stabilito. Aspettavo papà in cima alle scale con la borsa già pronta, ma lui non arrivava. Poco prima di partire ha dovuto sbrigare ancora qualcosa d’importante. È tornato solo dopo diverse ore. Le prime volte lo avevo accolto imbronciata, delusa come non mai, abbattuta. Poi mi sono accorta che questo atteggiamento non gli garbava. Si arrabbiava e mi ignorava a lungo. Preferisco dunque starmene buona ad aspettare finché mi solleva con le sue braccia forti per giocare insieme rincorrendoci per le stanze.

Amo il mio papà sopra ogni cosa. Essendo l’unica bambina di quattro figli, siamo stati sempre molto uniti. Posso accompagnarlo quasi ovunque, facciamo sport insieme. Sono una bambina forte, una cosa di cui papà va particolarmente fiero. Sono coraggiosa, intelligente e voglio provare di tutto. Ho sentito che ha raccontato a qualcuno che sono molto sveglia e che mi ricordo subito le parole in italiano. Sono felice che papà sia tanto orgoglioso di me.

*

La prima rissa alla quale ho assistito è stata uno shock terribile. Papà era appena rientrato, tardi la sera. Noi bambini eravamo già a letto. Improvvisamente mi accorgo che al piano di sotto sta accadendo qualcosa di terribile. Sento passi pesanti, forti rumori e qualcuno che sale di corsa le scale fino alla nostra porta d’ingresso. Sui vecchi scalini di legno si sente distintamente ogni passo, un rumore spaventoso. Deve trattarsi di una persona gigantesca: ogni movimento si percepisce chiaramente attraverso le vecchie mura. Un forsennato martellare alla porta, segue un urlo raccapricciante che spezza drammaticamente la quiete notturna. La voce profonda di un uomo urla che gli si apra la porta.

Ho tanta paura. Chi sarà mai? Cosa sta succedendo? Sono seduta tremate nel mio letto e non ho quasi coraggio di respirare. La paura cresce a dismisura quando sento, come in un incubo, che la vecchia, grande porta d’ingresso cede a un attacco violento, a una spinta, a una serie interminabile di calci. Un fragore di legno che va in frantumi. Il ferro cedevole della vecchia serratura si spezza e la porta si schianta contro la parete. Ora l’intruso ha via libera.

Mi pento amaramente di aver voluto una cameretta tutta mia. I miei fratelli sono svegli? Hanno sentito anche loro quello che ho sentito io? Se solo fossero qui con me ora! Che fare? La mia testa, il mio cuore sono in preda alla paura, una paura che rischia di sopraffarmi. Non riesco a piangere o a urlare, sono in balia di una marea di sensazioni insopportabili.

Sento la voce della mamma che vorrebbe calmare i due uomini. Ma allo stesso tempo sento un colpo come di uno schiaffo, un respiro pesante, un lamento. La confusione continua: trapestio di piedi, un altro colpo. Papà e l’estraneo si stanno picchiando selvaggiamente, sento il rumore di pugni sferrati, di ceffoni sonori che sembra giungano a segno ogni volta. Poi il doloroso gemito di chi è stato colpito. Sento lo schianto di una testa contro la parete, odo il respiro affannoso di due uomini che cercano entrambi di avere la meglio nella lotta. Poi un corpo che cade atterra con gran fragore, un calcio, un doloroso annaspare. E in mezzo a tutto, la voce della mamma che cerca disperatamente di porre fine alla rissa.

Esco furtivamente dalla camera e mi nascondo accoccolandomi dietro la ringhiera in cima alle scale. Ho tanta paura.

Che sta succedendo e perché quest’uomo è tanto in collera? Ho paura che ferisca il mio papà, anche se so che è ben allenato nella lotta sportiva e che col suo corpo grande e robusto, è più forte di molti altri uomini. Odo un altro colpo, qualcuno ha sbattuto contro la parete e ha cercato di attutire il colpo col palmo delle mani. I miei fratelli escono di soppiatto dalle loro camere e mi raggiungono nel mio nascondiglio. Ci guardiamo l’un l’altro; anche a loro si legge il panico in viso. Le mani ci tremano, non ci azzardiamo neppure a sussurrare per paura che l’uomo possa sentirci e venirci a prendere.

Dal mio posto non vedo nulla; i minuti e la lotta sembrano interminabili. Dovrei andare urgentemente in bagno che però si trova dall’altra parte del corridoio e non ho il coraggio di spostarmi. Vicina alla disperazione, mi rendo conto che per terra, tra le mie gambe, si sta formando una pozza. “No, no, no!” Prego Dio che faccia terminare questo momento terribile; spero che sia solo un incubo.

A un certo punto, l’estraneo esce fuggendo di casa. Mi affaccio un po’ e vedo come il papà cerca di riparare la serratura. Lo vedo solo di schiena e non riesco a capire se sia ferito o meno. La mamma sale le scale e mi porta a letto, senza dire una parola. Si vede che è esausta, mi porge dei calzoncini asciutti. Adesso piango perché questa scena è stata troppo forte per me e ho paura che l’uomo possa ritornare, perché so che ora la nostra porta di casa non si può più chiudere. Mi aggrappo con forza alle braccia della mamma. So che né questa notte né quelle successive riuscirò a prender sonno, tormentata come sono da incubi terribili.

*

Quando ci sono i miei fratelli maggiori, giochiamo insieme. Spesso litighiamo e ci picchiamo anche. Io mi difendo con tutte le forze. È già meglio quando c’è uno solo dei ragazzi: giocare in due è bello. D’altro canto non sembrano molto felici quando gioco con loro. “Stupida ragazzina”, dicono quando litighiamo. Oppure: “Brutto sgorbio, perché continui a correrci dietro?” Non ci posso mica far niente se sono una bambina; preferirei anch’io essere un ragazzo. E poi non me lo sono mica scelto io d’esser brutta. “Sgorbio sarai tu!”, urlo di rimando e do uno spintone a quello che mi sta più vicino. Ma i ragazzi mi dicono che comunque non capirei niente perché si vede chiaramente che sono scema. Queste frasi mi rattristano molto, ma mi comporto in modo che non se ne accorgano e rispondo per le rime.

Quello che i miei fratelli detestano in modo particolare è quando insisto per venire a giocare in casa dei loro amici.

“Cercati gli amici tuoi.” Certo, mi piacerebbe, ma non è per niente facile. Quando i bambini dei vicini mi fanno arrabbiare sono triste. Ho sentito dire che il papà di una bambina non vuole che giochiamo insieme. Evidentemente non sono alla loro altezza. È per questo che cerco di star dietro ai miei fratelli, anche se mi dicono cose odiose. E quando ricevono in regalo qualcosa dai loro amici e dai loro genitori, mi agito e strillo finché non danno qualcosa anche a me. La cosa li fa andare ovviamente in bestia e così giurano che non mi porteranno mai più con loro.

Una sera la mamma ci permette di andare a far la spesa con lei. La mamma porta in braccio il mio fratellino che adesso ha un anno; io le do la mano. I ragazzi invece ci precedono correndo. Io continuo a chiacchierare e approfitto del tempo per raccontare tante cose alla mamma. Per strada dobbiamo fermarci; vedo il supermercato dall’altro lato della strada; i ragazzi sono già fermi lì davanti. Io saltello da una gamba all’altra, inquieta, impaziente. La mamma mi avverte che potremo attraversare solo dopo che è passata la motocicletta. Io però non sento la seconda parte della frase e comincio a correre. Uno schianto. Urla. Silenzio.

Nell’elicottero del pronto soccorso sogno d’essere in piedi alla finestra, sogno di volare oltre la mamma. Nel sogno, degli uomini stanno scavando nelle mie ferite che mi fanno un male cane. Ho un mal di testa indescrivibile, sento tutto il corpo in fiamme… un dolore insopportabile. Mi sveglio e devo rimettere. Poi tutto ridiventa nero.

Non mi accorgo neppure che mi stanno portando all’ospedale; non mi rendo conto che i medici stanno lottando per tenermi in vita. Solo molto più tardi c’è anche la mamma che mi tiene la mano. Mi dice che ho avuto una gran fortuna. Inizialmente, i medici avevano pensato che avrei avuto dei gravi handicap, qualora fossi sopravvissuta.

Ora sono guarita completamente e posso tornare a casa prima del previsto. “Hai sempre avuto la testa dura”, scherza il papà mentre mi porta su per le scale all’ingresso; io gli sorrido esausta. La mia testa è appoggiata sul suo petto. Una bella sensazione.

Poi tutto torna come prima. Certo mi devo riguardare un po’, ma ben presto salto in giro come un grillo. Anche le vecchie scaramucce coi miei fratelli sono di nuovo all’ordine del giorno. Ma dentro di me qualcosa è cambiato. Quando i miei fratelli mi canzonano davanti ai loro compagni e dicono che sono la loro sorella scema, incapace di qualsiasi cosa, all’inizio mi difendo dalle accuse, ma d’un tratto mi sorge un brutto dubbio. Sono bloccata, come sotto shock. Rinuncio a difendermi. Dunque è vero! Ho riportato qualche menomazione a causa dell’incidente. Sono sconcertata, abbattuta. I miei fratelli più grandi sanno già tante di cose e sono certamente intelligenti. Se questa è la verità, non posso più controbattere. Da ora sono tormentata da grandi dubbi e soffro di un’insicurezza enorme; probabilmente non sono tutta giusta nella testa. Sembra che tutti lo sappiano meno che io…

*

Alla seconda rissa assisto da molto vicino. Un conoscente, un ragazzo giovane, è seduto a tavola con noi a cena. Papà si intrattiene con lui, noi bambini parliamo a bassa voce per non disturbare la conversazione degli adulti. Improvvisamente il papà salta su. “Scusa, ma le cose stanno così”, dice il conoscente. Il papà gli si avvicina minaccioso stringendo il pugno.

“Mi dispiace, ma questa è la mia opinione”, ripete e il papà gli si avvicina ancora di più. Appare visibilmente incollerito.

Resto a bocca aperta per la sorpresa. Ma che cos’hanno questi due che di solito vanno tanto d’accordo?

Poi tutto accade in un baleno. Il papà afferra l’uomo per la T-shirt, gli sferra un pugno e lo colpisce in pieno viso. Il rumore prodotto è il più terribile che io abbia mai udito in vita mia. Il papà trascina il ragazzo fuori dalla cucina con la maglietta stracciata. L’uomo va a finire con la testa sul comò in corridoio. Io corro dietro a loro per un tratto e mi fermo sulla porta tra la cucina e il corridoio. “Smettila, papà!”, grido piangendo. Mi sembra di dover rimettere. Mi duole la pancia, la testa sembra un buco vuoto e nero e sento un forte fruscio. Ho un bruciore al petto. Le mani e le ginocchia cedono. La mia anima si rannicchia per terra, nasconde il viso tra le gambe piegate. Ma io rimango in piedi a osservare quanto sta accadendo. Vedo il sangue scorrere sul viso del ragazzo, lo vedo barcollare avanti e indietro come intontito; per un lungo momento credo che cada svenuto. Poi corre fuori dalla porta di casa mentre il papà prende la rincorsa per sferrargli un calcio che però lo colpisce solo di striscio alla coscia. Il papà lo segue per alcuni passi per assicurarsi che se ne sia andato.

Poi ritorna. Sono sempre ancora lì, come sotto shock; tremo e piango davanti alla porta della cucina. Il papà mi guarda dall’alto in basso dritto negli occhi e mi aggredisce:

“Smettila di fare questa manfrina! Cerca di dominarti, mocciosa!” Smetto improvvisamente di piangere, il cuore perde un colpo. Resto irrigidita, a bocca aperta, e cerco di prender aria.

Sul pavimento davanti a me vedo alcune gocce di sangue e un anello che apparteneva di certo al giovane. Che si sia già accorto di averlo perduto?

*

Ecco l’inverno. La neve cade abbondante: dal cielo scendono senza sosta grossi fiocchi bianchi. Cerco di contarli, ma ci rinuncio dopo un po’. Che danza incantevole. Tiro fuori la lingua e sento un piacevole solletico. I fiocchi di neve hanno un sapore quasi trasparente, non sempre freddo. Se si dà un morso a una palla di neve, il sapore è diverso da quello dei singoli fiocchi che si posano sulla lingua. L’ho scoperto da sola. Che cosa strana… La neve in fin dei conti è pur sempre neve.

Sul prato accanto alla nostra casa si può slittare, far battaglie a palle di neve, costruire i pupazzi di neve più grandi del mondo. Facendo rotolare una palla di neve da lassù, dal bordo del pendio, questa diventa sempre più grossa e quando arriva in fondo alla china è gigantesca. Ripetiamo questa operazione per tre volte perché servono tre grandi palle di neve per fare un vero pupazzo (solo pochissimi lo sanno). Per sollevare la seconda palla sulla prima devono unire le forze più bambini; la neve pesa un accidente, soprattutto quando è bagnata. La terza palla è leggermente più piccola e un po’ di neve la togliamo col palmo delle mani, innanzitutto perché la testa non è grande come il tronco e poi non saremmo neppure capaci di sollevarla fin lassù. Bottoni, una carota per naso, bastoni come braccia: tutto dev’essere perfetto. Nel frattempo è nevicato tanto che non riesco a vedere più in là del manto di neve che adesso mi arriva fino alla punta del naso. Adesso lavoriamo di gran lena con grandi badili per costruire una fortezza intorno al pupazzo di neve. Che lavoraccio. Sono proprio soddisfatta della nostra opera.

La cosa più bella, dopo, è star seduti presso la stufa di maiolica per scaldarci le membra intirizzite. Gli occhi mi si chiudono da soli. La mamma mi porta a letto.

Proprio vicino alla nostra casa passa una pista da sci con un piccolo ski-lift. Quest’anno riuscirò già a salire da sola. L’anno scorso non ne ero ancora capace e il papà mi sistemava tra le sue gambe coi miei sci per salire insieme la china e ridiscendere la pista. Ora è il papà che deve correre; deve proprio darsi da fare per starmi dietro… sono velocissima.

La mamma va di nuovo a lavorare. Lei è maestra d’asilo, ma non nel nostro paese. Volevo andare nel suo asilo, ma non è permesso. Con la mia mamma ci sono sempre dei bambini, ma non io. È un’ingiustizia bella e buona. Talvolta penso che la mamma voglia più bene agli altri bambini che a me. Per loro, lei prepara anche giochi e storielle. Poco fa ha voluto addirittura portare il “MIO” libro preferito, per leggerlo agli altri bambini. “La regina della neve”. Di quel libro non mi stancherei mai. La sua domanda mi ha fatto male, mi ha proprio indignata; poi, quando la mamma è uscita dalla mia camera senza il mio libro e senza di me, mi sono sentita molto triste, anche se ero riuscita a impormi. È stato difficile sopportare la delusione nel suo sguardo… ha bruciato ancora per molto nell’anima. Ma perché ha rinunciato? Avrei voluto solo sentirla dire che sono io la più importante per lei, anche se legge libri ad altri bambini… che mi vuole bene e che sono la sua unica bambina. Ma lei mi ha solo guardato con quegli occhi amareggiati e se n’è andata.

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Non sono quasi riuscita a dormire la notte e mi sono svegliata molto presto la mattina. Finalmente è arrivato il gran giorno! Oggi è Natale e viene Gesù Bambino. Sono agitata. Di corsa salto giù dal letto. Sul comodino vedo i rottami della mia sveglia. La mia prima sveglia, una sveglia rossa: me l’ha regalata mia zia. Anche se non so ancora leggere l’ora, mi ha fatto molto piacere; mi affascinava soprattutto il suo tic tac regolare. Ma il ticchettio si è spento dopo che i miei fratelli hanno voluto scoprire cosa ci fosse dentro la sveglia. Malinconica guardo altrove.

Sono di nuovo agitatissima. Cosa mi porterà Gesù Bambino oggi? A dire il vero, gli avevo chiesto, come ogni anno, una sorellina. Se ne avessi una, non sarei tanto sola; avrei qualcuno che mi capisce e che gioca sempre con me. Penso che il mio desiderio non si avvererà neppure oggi. E allora spero proprio che mi porti un bel gioco; magari una bambola. Il giorno passa al rallentatore. Ma quando mai comincerà a far notte?

Quando la sera faccio per entrare in cucina per la cena, la porta viene tenuta chiusa a forza. Io martello contro la porta e sento i ragazzi che parlottano. “Fatemi entrare”, grido e continuo a tempestare di pugni la porta. “Aprite!” Ma la porta rimane chiusa. Disperata, comincio a piangere; ma perché mi chiudono fuori? Sento la mamma che parla; ma perché non mi aiuta? Mi siedo rumorosamente per terra piangendo; mi sento abbandonata, tanto sola. Passa un’eternità finché la porta si riapre: finalmente posso entrare. E questo cosa sarebbe? Siete così perfidi. I ragazzi parlottano tra loro e ridacchiano. Finalmente si cena. Zuppa con pasta e salsicciotti e poi “latte di neve”, mmmh, che delizia. La cena me la gusto però solo a metà; voglio finalmente andare nella “stube” per vedere se Gesù Bambino ha già messo i regali sotto l’alberello. La mamma va in bagno e già si sente suonare un campanellino. Gesù Bambino!

Non riusciamo più a trattenerci. Ci precipitiamo tutti nella “stube” rivestita in legno. La stufa emana un calore gradevole. Mille candele tuffano la stanza in una luce dorata, i fili argentati brillano e splendono ovunque. I nostri occhi di bambini s’illuminano. Timida guardo mamma e papà. “Possiamo?” Mamma e papà annuiscono. Io acchiappo il mio regalo e strappo l’involucro. Una scatola di cartone. Che sia una bambola? Il cartone non si vuole aprire. Finalmente ce l’ho fatta e vedo… delle scarpe rosse. Rimango allocchita. Siamo sicuri che sia il pacchetto giusto? Mi viene un colpo. Guardo nuovamente dentro la scatola, la giro e la capovolgo, ma non trovo altro. Le lacrime mi riempiono gli occhi. Sono troppo delusa. Gesù Bambino non mi vuole bene? Perché mi regala delle scarpe? E per di più queste scarpe rosse… che tutti vedano subito che sono una bambina? Con tutta la gente che pensa che le bambine siano delle stupide oche… Mi guardo intorno; vedo i miei fratelli che giocano coi loro regali. Una lacrima silenziosa mi scende dal viso.

La mattina dopo, esco di casa di soppiatto. Lì di fronte c’è il bidone dei rifiuti e il camion della nettezza sta girando l’angolo. Salgo su una grossa pietra e mi tendo verso l’alto. Oplà! Una delle scarpe è finita nel bidone. Ora posso tornare a casa. “Ho perso una scarpa”, dico alla mamma in cucina. Con la coda dell’occhio vedo gli uomini della nettezza urbana che vuotano il bidone nel camion e ripartono. Respiro con sollievo. Basta con le scarpe rosse da bambina.

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Festeggio il mio quinto compleanno. Una giornata piena di sensazioni contrastanti. Ho invitato i bambini dell’asilo. Tre bambini e una bambina. I tre maschi preferiscono giocare coi miei fratelli saltando sul divano; provo con tutte le mie forze a convincerli a giocare con me. “È il mio compleanno!”, grido con la voce che si spezza per la rabbia. Ma non mi riesce di convincerli; cerco dunque di intromettermi, in un modo nell’altro, nella confusione generale dei ragazzi.

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Questa notte è caduta nuovamente tanta neve qui da noi.

La strada davanti a casa nostra è già stata sgomberata dello spazzaneve, ma a destra e a sinistra la neve è bella alta. Mi fermo indecisa. Di solito vado all’asilo col bambino dei vicini.

Ora possiamo già andarci da soli, visto che basta attraversare il prato. Ogni mattina suono alla porta dei vicini. Il bambino è molto timido e talvolta balbetta. Io lo difendo se qualcuno lo deride e lo prende in giro perché balbetta, lo proteggo come posso. Devo aprirmi un varco nella neve alta per giungere alla porta della casa. Devo fare passi da gigante con le mie gambe corte, passo dopo passo, nel manto freddo, con gran fatica e concentrazione. “Ma di’ un po’, sei per caso matta?” mi spavento, inciampo e cado. Perché papà urla improvvisamente dalla porta di casa? Mi giro, torno indietro sorpresa e intimidita. “Adesso che c’è?” papà è visibilmente in collera, ma non capisco perché. Vuole che indossi altri calzoni e altri calzini, mi aiuta ad allacciarmi le scarpe e mi spedisce nuovamente davanti alla porta. “E adesso fila, corri all’asilo”, grugnisce sempre ancora arrabbiato. Certo, penso tra me e me, ci volevo andare già da un pezzo. Scendo le scale e attraverso la strada. Stavolta è già più facile passare per la neve alta visto che le orme di prima sono visibili. Ma non faccio molti passi. Ora non sento più un urlo, ma un respiro, e improvvisamente avverto un doloroso strattone alla mia spalla e volo per aria. Arrabbiato come non mai, papà mi trascina su per le scale e appena arrivati dietro la porta, mi colpisce con la mano piatta sul sedere e subito dopo in viso.

Guardo papà scioccata… Non capisco più niente. Cos’ha oggi papà? Mi getta nuovamente un paio di calzoni e dei calzini davanti ai piedi. A gran fatica mi tolgo i jeans fradici incollati alle gambe; la mia pelle è arrossata dal freddo. Manca poco che inciampo in una gamba dei calzoni; sento il viso avvampare. Mi sbrigo per non far arrabbiare ancora di più papà, ma non è tanto facile. Infilo nervosamente i calzoni asciutti con mani tremanti. Ora lo guardo interrogativamente, ma lui mi spinge nuovamente davanti alla porta. “E guai a te se non vai dritta filata all’asilo.” Sono ferma in mezzo alla via, indecisa.

È da un bel po’ che volevo andare all’asilo. Cos’ho sbagliato? Mi fermo, rifletto su cosa fare quando già mi viene incontro il ragazzo dei vicini. “Perché tuo papà ha urlato tanto?”, mi domanda con occhio indagatore. “Che ne so?”, brontolo alzando le spalle e toccandomi la guancia che brucia ancora. Non dovevo semplicemente passare per la neve fonda per giungere asciutta all’asilo… questo l’ho capito alla fine. E come faccio a capire se mi si urla addosso senza spiegarmi cosa devo fare? Ci avviamo: cominciamo a chiacchierare e a pensare a cosa potremmo fare oggi all’asilo.

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