Otto anni scorsero di vita uniforme, e non punto
alterata da rilevanti vicende. I trastulli dell’infanzia, le
giornaliere lezioni occupavano la giornata, chiusa ordinariamente
al vespro da una scelta società di militari e di calabri, fra’
quali v’erano pur alcuni fregiati di letteraria celebrità. Nel
corso di questi otto anni le mie tre prime sorelle passarono a
marito, sicché rimasi in famiglia con un’altra, a me maggiore d’un
anno solo. Giuseppina, bella ed infelice donzella, aveva le forme e
il cuore degli angeli… Essa non è più!
Mal ferma sino a questo punto s’era dimostrata la
mia salute. Nervosa per temperamento, pallida ognora nel volto, di
complessione gracile, dotata di soverchia e però funesta
sensibilità, io non prometteva di giungere alle proporzioni d’un
organismo fortemente costituito. Entrata però che fui nel
quattordicesimo anno, le mie forme presero uno sviluppo
inaspettato, al pallore succedette il vermiglio, che sembrava
maggiore di quello fosse in effetto, pel colore bruno della mia
carnagione. Disgraziatamente (se l’amore può chiamarsi disgrazia),
allo sviluppo del corpo concorse precoce pur quello del cuore.
Sparì d’un tratto la serenità imperturbata della puerizia; non più
il riconfortatore balsamo del sonno. Mi sentii un vuoto nell’animo,
vuoto sommamente penoso, che bramai di riempire coll’ottenimento
d’un oggetto vago, indistinto, non per anco da me stessa
determinato. Bastava uno sguardo, un detto per conturbarmi la
misura de’ palpiti, per farmi credere d’avere ispirato un
sentimento simile a quello che aveva provato io stessa.
Sopravveniva poscia il disinganno; quello sguardo era stato
lanciato dal caso, quella parola era stata pronunziata per mera
gentilezza, senza che il cuore vi avesse avuto parte alcuna.
Rigorosa d’altronde era l’educazione che a noi dava la madre. Essa
ci misurava l’ora che, per godere del pubblico passeggio, eraci
lecito di trattenerci sul verone; la
benché minima trasgressione poi era punita con severo
castigo.
Ma chi non sa quanto ribelli a’ castighi siano le
aspirazioni del cuore a quattordici anni?
Ben sa il ver chi
l’impara,
Com’ho fatt’io con
mio grave dolore!
Spirò appunto nel verone l’ultimo de’ miei giorni
allegri.
Nella folla de’ vagheggini, che sfilavano al di
sotto, distinsi un avvenente giovane, intento più d’ogni altro a
tributarmi sguardi d’ammirazione. Fissarlo, arrossire, balzarmi il
seno, fu un tempo solo. Più volte nello stesso giorno egli passò e
ripassò. La soave languidezza delle sue pupille, il suo incedere
pacato, la sua statura alta anzi che no, la sveltezza delle
proporzioni mi convinsero essere quello, e non altro, l’uomo de’
miei sogni dorati, l’incarnazione delle mie
aspirazioni.
Mentre si allontanava, chiamai la cameriera, e le
domandai se lo conosceva di persona, o di nome: quella, nativa di
Reggio, rispose conoscerlo appieno.
Chiamavasi Carlo *, ed era il primogenito di una
famiglia, non molto ricca, ma sufficientemente
agiata.
L’immagine dell’avvenente persona presentavasi
ognora alla mia mente, rivestita di forme ideali. Le ore della
notte mi sembrarono eterne, il giorno seguente lunghissimo, il
lavoro noioso, le lezioni fastidiose; desiderava con ansietà veder
giunger l’ora nella quale mi sarebbe dato il permesso d’uscir sul
verone favorito, per rivedere l’oggetto, che dal giorno innanzi
sovraneggiava tutti i miei pensieri.
L’ora finalmente arrivò. Corsi al balcone;
indicibile fu il mio contento nel vederlo fermato sotto lo stesso
tetto. S’incontrarono i nostri occhi in un lampo medesimo: diventai
di porpora. Carlo s’avvide del mio imbarazzo; un leggero sorriso
sfiorò le sue labbra, e modestamente avvicinando la mano al
cappello, mi salutò. Quale temerità da parte mia! A quel saluto
corrisposi tutta tremante, commossa, confusa: io passava
dall’impersonalità della fanciullezza alla coscienza dell’espansiva
individualità.
Da quel momento non rinvenni più pace; carissimo
m’era però l’averla smarrita. Le sofferenze dell’amore,
specialmente del primo, sono incantevoli: un sol momento di
contento compensa mille dispiaceri sofferti. Quanti segreti
conforti non mi procuravano allora le
malinconiche note del Petrarca, che nel silenzio della notte io
divorava con avidità! Con quali tenere ispirazioni non temprarono
l’acerbità delle mie pene i molti affetti della
Gerusalemme liberata!
Carlo ripassava ogni giorno; ma pochi minuti di ritardo
nelle ore che ci era dato vederci da lontano; ma la pioggia che
qualche volta me lo strappava; ma l’ordine di mia madre di
accompagnarla in qualche visita, erano per me occasioni di grave
afflizione. Vederlo e corrispondere al suo garbato saluto,
scambiare seco lui, non fosse che una sola occhiata, mi facevano
mettere tutto in dimenticanza, mi ricolmavano d’ineffabile
beatitudine.
Trascorsero così molti mesi, ne’ quali la
comunicazione dell’amor nostro non oltrepassò i limiti degli
sguardi e del reciproco saluto. Io amava quel giovane con poesia
limpida, pura, cristallina; con poesia che sentiva infusa in tutto
l’essere mio, sebbene non potessi né sapessi esprimerla: egli si
mostrava ognora premurosissimo di vedermi, benché non si
sollecitasse punto di mandare a’ miei genitori ambasciata di
matrimonio, anzi paresse propenso di nascondere loro l’innocente,
ma pur reale, amorosa nostra corrispondenza.
Quasi di rimpetto alla nostra abitazione eravi un
palazzo, il cui primo piano trovavasi disabitato da lungo tempo.
Una mattina udii fermarsi un carretto a quella porta. Alzai le
cortine della finestra, e lo vidi carico di mobilia, che da’
facchini era portata in quell’appartamento. Vi ritornai, animata da
non so quale lusinghiero presentimento, e oh, quale sorpresa! vidi
Carlo al balcone di quella casa, in atto di guardare la mia. Lui
stesso! pensai: lascia egli dunque la sua famiglia, per venire più
vicino a me… !
Il mio volto apparve da’ cristalli: Carlo mi scoprì,
mi sorrise, mi salutò. Fuggii per timore che mia madre
sopravvenisse, ma il contento manifestavasi in tutte le mie azioni,
appariva nell’atmosfera stessa ch’io respirava. Il dopopranzo,
secondo l’usato, mi posi al balcone: Carlo pure stava al suo. Egli
si ritrasse in fondo alla camera, e con un gesto espressivo mi
domandò s’io l’amava; fissandolo, sorridendo ed abbassando il capo,
io gli risposi di sì.
La sera dello stesso giorno, essendosi riunita la
società d’amici in casa nostra, da taluni giovani, che discorrevano
a me d’accanto, intesi pronunziare il nome a me caro. Tesi
l’orecchio, ed ascoltai. Dicevan essi che si era diviso dalla
famiglia per istarsene tutto solo colla sposa… La
parola sposa
mi colpì; ma per quanta attenzione usassi, non mi venne
fatto raccogliere altro del loro discorso.
Il mio affetto aumentò col vederlo più spesso,
perché, evitando la vigilanza della
madre, correva più volte al giorno alla finestra, viemaggiormente
eccitata dalla speranza che la sposa, di cui parlavasi, non fosse
altra che io stessa.
Una domenica mia madre uscì di buon mattino. Aprii
la solita finestra, e sedutami accanto ad essa, vagheggiava
mestamente Carlo, che agli occhi miei appariva più seducente del
consueto; egli del pari, postosi vicino alla sua, mi faceva de’
segni che mi sembravano dimostrazioni del più vivo affetto.
Nell’atto di contemplarlo, piena della lusinga deliziosa che il
cielo non l’avesse creato per altra donna che per me, quanti e
quali progetti di futura felicità mi formava! Nel cuor della
donzella innamorata havvi giorno più caldamente sospirato di quello
delle nozze? Ciò che in religione ed in filosofia suona la voce
“avvenire”, è all’orecchio dell’appassionata zittella contenuto
nella mistica voce “matrimonio”.
Viene la cameriera tutta ansante, e mi dice in
fretta:
«Signorina, che fate? Ritiratevi dalla
finestra!»
«Perché?» le domandai sbigottita.
«Voi amate alla follia quel giovanastro, ed egli fra
giorni sposerà un’altra».
«T’inganni» le dissi, coperta da mortale pallore…
«T’inganni! Chi può averti data a credere tale
fanfaluca?»
E, vòlta verso di lui, gli domandai, col gesto, se
m’amava.
Rispose con trasporto, e ripetutamente,
di sì.
«Lo vedi?» esclamai: «Vedi quanto
t’inganni?»
«No, non m’inganno. Siete ancora troppo fanciulla
per comprendere dove arrivano la malvagità e la simulazione degli
uomini. È tanto certo che in men d’un mese quell’ipocrita sposerà
altra donna, quanto è certo che oggi è giorno di domenica. Mia
madre ha parlato con lui stesso. Gli ha detto: ‘Io credeva, signor
Carlo, che la sposa esser dovesse la giovine Caracciolo!’ ed egli
ha risposto: ‘La Caracciolo è buona per ogni conto, ma ha poca
dote’».
A questi detti proruppi in singhiozzi, né potei
frenar le lacrime; mi accostai alle umide ciglia il fazzoletto, e
gli rivolsi uno sguardo interrogativo, pieno di costernazione e di
tristezza. Egli con altro segno mi domandò quello che mi
conturbasse; ma la coscienza, che lo mordeva, gliene rivelò tosto
il motivo.
«Ritiratevi, signorina!» riprese a dire la
cameriera: «Non vi degnate più di guardare in faccia quel
perfido!».
Senza rispondere, chiusi la malaugurata finestra e
mi ritirai. Sentiva spezzarmisi il cuore: la cameriera mi prodigò
de’ soccorsi. Diedi alfine in un pianto
dirotto, e versai, in preda alla disperazione, un torrente d’amare
lagrime.
«Crudele!» io esclamava sospirando; «non ti bastava
dunque la barbarie di abbandonarmi, ma hai pure scelto per tua
dimora una casa a me vicina, acciocché io ti vegga ognora al fianco
della donna che mi suppianta! ».
Scorsero non poche ore fra il pianto e le smanie.
Alfine cercai di calmarmi, per non attirare l’attenzione della
genitrice al suo ritorno. Ma ella, avvedutasi delle mie fattezze
alterate, delle péste ed arrossite palpebre, volle conoscere il
motivo che mi contristava a tal punto.
«Un forte mal di capo» le dissi.
E non mentiva. Il dolore sofferto era di tal natura
da farmi ammalare. Infatti, dopo tre soli giorni, che passai nelle
più acerbe pene, e nel corso de’ quali evitai di vedere e di farmi
vedere da Carlo, fui assalita da una febbre gastro-biliosa che mi
durò due settimane.
Non impedì per altro la febbre ch’io mandassi di
volta in volta la cameriera alla fatal finestra, per sapere quello
che Carlo si facesse. Ne avea in risposta che tutto era chiuso. La
pregai d’informarsi da qualche persona di sua conoscenza, se le
trattative del matrimonio progredivano, perché l’amore, non meno
vivo di prima nell’animo mio, mi lasciava sperare che la notizia
della mia infermità avrebbe ritenuto il barbaro dal consumare il
tradimento. La risposta che ne ricevetti si fu, com’egli spendesse
l’intera giornata in casa della fidanzata, ed una sola settimana
mancasse alla celebrazione degli sponsali.
Quest’ultimo colpo pose il colmo alla mia
disperazione. Piansi l’intera notte, come sogliono piangere tutte
le fanciulle che acquistano l’esperienza del mondo a forza di
disinganni e di lagrime.
Havvi donna che non abbia amato? Tale donna, avesse
pure infusa nello spirito suo tutta quanta la scienza di Platone e
d’Aristotile, non conoscerebbe il mondo che per
metà!
La mattina seguente il mio spirito era rasserenato.
Sulla tomba della mia passione posi di propria mano la funerea
lapide, e vi scolpii
oblio! Imitino il
mio esempio le giovanette, cui la sana educazione non fa vedere
nell’amante altro che lo sposo futuro! L’immagine di Carlo non mi
ritornò più nella mente, se non sotto le sembianze d’un personaggio
drammatico, le cui vicende m’avessero commossa non ha guari in
teatro.
Giunsi alla convalescenza.
Una sera, a notte
avanzata, udii il romore di molte carrozze, che fermavansi a non
grande distanza dalla mia casa.
«Antonia!» gridai: «Antonia!». Accorse la
fantesca.
«Cos’è questo fracasso in istrada? È forse lo
sposo?»
«Sì signora. E la sposa, che viene accompagnata in
casa del signor Carlo da’ suoi parenti… »
Ebbi una scossa elettrica.
«E le nozze quando saranno
celebrate?»
«Stasera stessa».
Poggiai di nuovo la testa sull’origliere, e mi
tacqui. Era già rassegnata.
Parecchi mesi dopo il fatto sopranarrato, la città
trovavasi in movimento. Reggio attendeva Ferdinando II al suo
ritorno da Palermo.
Mio padre fu avvertito allo spuntar del giorno che
il vapore era alle viste. Vestitosi in fretta, recossi al luogo del
ricevimento.
La sera, una sontuosa festa da ballo fu data nel
palazzo Ramirez.
M’acconciai con semplicità ed eleganza. Io e
Giuseppina vestimmo un abito di velo cerise col sott’abito dello
stesso colore: il seno, decentemente scoverto, era guernito d’una
collana d’oro, e la chioma formava una pioggia di ricci,
distribuiti sull’una e l’altra parte del volto all’uso
inglese.
Eravamo da circa mezz’ora nella sala del ballo,
quando giunse il re. Mio padre, facente parte della comitiva, ci
presentò a Sua Maestà.
Prima di scegliersi una compagna per la danza, volle
Ferdinando starsene spettatore per qualche tempo.
«Quelle due ragazze en
cerise sono le vostre figlie,
maresciallo?» domandò a mio padre il marito della virtuosa
Cristina.
«Maestà, sì».
«Me ne rallegro con voi: ballano a
maraviglia».
Finito il valzer, fu pregato di scegliersi una
compagna. Lo vidi dirigersi alla mia volta, per invitarmi egli
stesso, mentre al ministro Delcaretto indicava col gesto mia
sorella Giuseppina, destinata a fargli il
vis-à-vis.
Se Ferdinando II avesse saputo condurre il suo
governo e trattare il popolo a lui soggetto coll’amabilità
cavalleresca che mostrò nelle figurazioni della quadriglia, chi sa
per quanto tempo ancora avrebbe l’Italia aspettato il compimento
de’ suoi voti!
Dopo il ballo se ne partì.
La politica era allora per
me, come per altri moltissimi, una parola vuota di senso: poche
volte sentiva parlarne, perché la classe degli ascoltatori incuteva
paura a tutti… Chi m’avrebbe detto quella sera che avrei detestato
e Ferdinando, e Francesco suo figlio, e tutti coloro che portano il
nome borbonico!
Null’altro di singolare ricordo sino al 1838, tranne
due fatti accaduti in mia famiglia: siami lecito di
rammentarli.
Eravi nel palazzo, da noi abitato, un piccolo
coretto, con una grata, che dava nella chiesa di Sant’Agostino: lì
ascoltavamo la messa e facevamo le serali preci. Un giorno, mentre
Giuseppina vi passava, parte del pavimento sprofondò. La poverina
cadde tramortita; e sull’istante si credette lieve cosa quanto era
successo, ma l’infelice ne rimase zoppa, anzi per effetto di quella
caduta scese al sepolcro pochi anni dopo.
Un’altra mattina, mi recai nella stanza di mio padre
per dargli il buongiorno; gli presi riverente la mano per baciarla:
egli, sollevatomi il capo, mi domandò sgomentato se mi sentiva
male.
«Non ho nulla» risposi.
«Come nulla? Tu non stai bene!»
«Dio mio, è curiosa davvero! Mi sento
benissimo!»
«Mirati nello specchio!».
M’accostai al cristallo, e vidi il mio volto coperto
di macchie d’un rosso accesissimo. Ei mi fece sedere accanto a sé,
ed avvertì mia madre che facesse chiamare tosto il medico. Ma qual
fu la nostra sorpresa nel vedere Giuseppina, che pur usciva della
sua stanza, col volto più macchiato del mio!
Si comprese allora essere stato l’effetto d’una
pillola di bella donna, che ci avevano somministrata in drastica
dose, perché avevamo entrambe la tosse convulsa; e ci credettero
avvelenate.
Il medico non giungeva; frattanto il nostro stato
diveniva da momento in momento più critico. Il rosso del volto
spandevasi per tutto il corpo: una gagliarda palpitazione ci
sopraggiunse, e la vista ne restò oscurata.
Non arrivò il professore che dopo un’ora di
angustia, e con succo di limone e molta neve arrestò i progressi
del veleno.
Era il mese d’ottobre. Dopo la tempesta sofferta per
l’inganno di Carlo, il mio cuore godeva d’una calma perfetta. Io
vedeva colla massima indifferenza quell’uomo accanto alla sua
sposa, la quale, o per effetto del caso, o per meditata malignità,
usava al marito le più spasimanti
carezze, ogni qual volta i miei sguardi cadevano involontariamente
su di loro.
Mia madre aveva dato alla luce altre due femmine. La
cura ch’io mi prendeva delle bambine mi serviva di distrazione
gradevolissima.
Una sera, mio padre ricevette la visita d’un nuovo
impiegato civile, il quale menava seco un figlio che sembrava aver
compito il quarto lustro appena. Io mi trovava nel salotto col
resto della famiglia.
Il giovine, che avea nome Domenico, fermò lo sguardo
su di me, senza staccarlo per tutto il tempo che durò la
visita.
Benché non potesse dirsi bello di persona, pure i
suoi occhi, mirabilmente conformati, sfavillavano un fascino
ammaliatore. Era egli conscio di questo potere, egli che mi
appuntava con siffatta tenacità?
Questo solamente so, che sotto l’azione di quel
fascino un disagio, un malessere, un turbamento singolare
s’impadronirono di me con energia crescente. Cercava cambiar
posizione, discorrere, divagarmi, ma indarno: quello sguardo
inesorabile mi perseguitava in ogni luogo, m’attirava
ineluttabilmente a sé, mi magnetizzava.
Il giorno appresso lo rividi al passeggio: lo rividi
la sera al teatro. D’allora in poi non uscii di casa senza
incontrarlo; l’occhio mio lo discerneva nella folla con
penetrazione maravigliosa, ed alla sua vista il seno mi balzava con
violenza. Egli, da parte sua, sollecito di seguirmi ovunque
andassi, non si lasciava sfuggire veruna opportunità per farmi
consapevole del sentimento che io gli aveva
ispirato.
«Credi dunque che gli uomini tutti siano della
tempra medesima di Carlo?» mi andava dicendo un’intima voce in
tuono carezzevole. «No: non sono tutti d’una pasta. Se vera è la
massima, che rara è la lealtà in amore e pochi son coloro che la
trovano, pure l’esistenza della virtù è comprovata dalla tua
propria sincerità, e ti basta fare una seconda prova per
rinvenirla. Uno sguardo, che sa rimescolare fin dal più profondo le
viscere, può egli non essere messaggiero d’amore, di compassione,
di umanità?».
Non potei resistere alla corrente di sì persuasivi
suggerimenti.
Riscaldato dall’immaginazione, il mio cuore
infiammossi di bel nuovo, mentre la ragione, soggiogata dal
sentimento, si taceva, spoglia d’ogni riparo lasciando l’anima
all’invasione del fascino.