Il Barone Carlo Coriolano di
Santafusca non credeva in Dio e meno ancora credeva nel diavolo; e,
per quanto buon napoletano, nemmeno nelle streghe e nella
iettatura.
A vent'anni voleva farsi
frate, ma imbattutosi in un dotto scienziato francese, un certo
dottor Panterre, perseguitato dal governo di Napoleone III per la
sua propaganda materialistica ed anarchica, colla fantasia rapida e
violenta propria dei meridionali, si innamorò delle dottrine del
bizzarro cospiratore, che aveva anche una testa curiosa, tutta
osso, con due occhiacci di falco, insomma un terribile
fascinatore.
Per
qualche anno il barone, detto «u barone», lesse dei libri e prese
la scienza sul serio: ma non sarebbe stato lui, se avesse per amore
della scienza rinunciato alle belle donne, al giuoco, al buon vino
del Vesuvio, e ai cari amici. Il libertino prese la mano sul frate
e sul nichilista, e dalla fusione di questi tre uomini uscí «u
barone» unico nel suo genere, gran giuocatore, gran fumatore, gran
bestemmiatore in faccia all'eterno. Nulla, e nello stesso tempo
amabile camerata, idolo delle donne, coraggioso come un negro, e a
certe lune fantastico come un bramino.
Noi qui parliamo del barone
della sua prima maniera quando non aveva piú di trent'anni. Napoli
allora era tutta una festa garibaldina, bianca, rossa e verde. Le
donne abbracciavano i bei soldati nella via e alzavano i bambini
sulle braccia, perché Garibaldi li battezzasse nel nome santo
d'Italia. Innanzi al ritratto dell'eroe si accendevano i lumi e si
appendevano corone di fiori, come davanti a San Gennaro e alla
Madonna Santissima.
Santafusca prese una parte
breve e brillante nelle ultime scaramucce di quel tempo e fu anche
ferito alla fronte. Gliene rimase una cicatrice sopra il ciglio… ,
ma i bei tempi erano passati.
Oggi l'uomo aveva
quarantacinque anni, una gran barba nera, un volto abbruciato dal
sole e dai liquori, una gran voglia di godere la vita e una miseria
profonda.
Non godeva píú credito né
presso gli amici, né presso i parenti, ch'egli aveva disgustati
colla sua vita dissipata e colla sua bestiale
empietà.
Al frate, al nichilista, al
libertino si aggiungeva ora un pitocco disperato, costretto a
quarantacinque anni a mendicare dieci lire alla sua guardarobiera,
se voleva pranzare e bere un cognac.
Al club avevano pubblicato il
suo nome nell'albo degli insolvibili, e poiché non pagava piú i
debiti del giuoco, tutti lo fuggivano ora come la
lebbra.
Sí, il barone Carlo Coriolano
di Santafusca si sentí veramente la lebbra addosso quel dí che il
canonico amministratore del Sacro Monte delle Orfanelle gli mandò a
dire per l'ultima volta che, se entro la settimana non restituiva
una cartella di quindicimila lire, il Consiglio d'Amministrazione
avrebbe denunciata la cosa al Procuratore del
Re.
I Santafusca per antico
diritto avevano parte nell'Amministrazione del Sacro Monte, e nella
sua qualità di patrono e di consigliere «u barone» aveva più volte
pescato nelle strette del bisogno in fondo alla cassa
dell'istituto, dando false o poco solide garanzie. Ora i groppi
erano venuti al pettine.
Il canonico diceva
chiaro:
- Se vostra
eccellenza non rende a questa pia Casa la cartella di lire
quindicimila, il Consiglio sarà nella dolorosa necessità di portare
il fatto davanti ai Tribunali.
Davanti ai Tribunali «u
barone» non sarebbe mai andato, questo era certo. Eravamo al lunedí
santo e c'eran davanti quasi quindici giorni alla fatale scadenza.
In quindici giorni un uomo d'ingegno, che non ha voglia ancora di
farsi saltare le cervella, deve trovare la maniera di non andare in
prigione.
Quale prigione avrebbe potuto
tenerlo dentro? O che non ha piú boschi la Calabria ed è proprio
finita la razza dei briganti?
Non era la prima volta che un
Santafusca aveva battuta la campagna e un suo avolo, don Nicolò,
era stato con Fra Diavolo sei mesi su per le rupi della Maiella ai
tempi dei tempi: ma con tutto ciò il barone sentiva che un uomo in
quindici giorni non ha tempo neppure di diventare un
brigante.
Bisognava adunque trovare
qualche altro espediente piú spiccio e meno melodrammatico.
Fuggire? Non era il caso di pensarci, perché quando si è poveri si
viaggia male, Chiedere un prestito? A chi, se non c'era piú un cane
che gli volesse dare un quattrino? Giocare, tentar la sorte?
Nessuno voleva mescolare con lui un mazzo di carte, e poi, non
sempre chi giuoca vince.
Non rimaneva che la sua villa
di Santafusca, lontana un cinque chilometri da Napoli, che poteva
fruttare ancora qualche migliaio di lire, a patto però di vendere
fino all'ultimo chiodo, perché un terzo era ipotecato già al
marchese di Vico Spiano, un terzo era una rovina e l'altro terzo
rappresentava un rifugio, un tetto, un asilo d'un povero uomo sulla
terra.
Anche vendendo ciò che
rimaneva di netto, non avrebbe potuto raggranellare quindicimila
lire e dopo egli sarebbe rimasto un vagabondo intero, nudo nato,
senza nemmeno un guanciale per posare il
capo.
Se un barone di Santafusca, si
noti, contava ancora per qualche cosa nel mondo e se poteva sperar
dì trovare ancora un cento lire per la fame e per la sete, questo
credito, per quanto avariato, gli proveniva da quel vecchio
palazzo, che imponeva ancora un certo rispetto al volgo e che
sosteneva colla catena della tradizione un uomo ridotto ormai a far
la parte di pulcinella.
Bisognava trovare le
quindicimila lire e già eravamo giunti al giovedí santo senza alcun
risultato.
Finalmente gli venne in mente
prete Cirillo.
Chi era prete Cirillo?
Non v'era donnicciuola o
pescivendola o camorrista delle Sezioni di Pendino e di Mercato che
non conoscesse «u prevete», che abitava nei quartieri più poveri,
in una soffitta chiusa in mezzo ai comignoli delle case, ove non
mai scende l'occhio benedetto del sole, e non regna sovrano che il
vizio ed il puzzo del pesce, che il popolino frigge sugli usci e
nella via.
A vederlo camminare per le
strade, non si sarebbe data una buccia di arancia per quel pretuzzo
tutto cappello, vestito di un abito polveroso, sotto un mantello
verdognolo e ragnoso che faceva da staccio al vento, con un viso
tinto proprio come il pesce fritto.
Le mani erano lunghe, magre,
lucide, come i fusi d'ulivo, con unghie piú forti degli uncini che
tirano nel porto i barili e ì sacchi del
merluzzo.
Le gambette, asciutte come gli
stinchi dei santi, andavano a finire in due scarpe sconquassate,
grandi come i burchielli che fanno il servizio di cabotaggio tra
Napoli e Messina.
Prete Cirillo era un uomo
pieno di denari, che egli aveva radunati un poco coll'usura,
prestando ai pizzicagnoli, ai pescivendoli, ai galantini della
Sezione, e molto colle vincite al lotto. Si diceva che «u prevete»
avesse i numeri e, coll'aiuto di certi calcoli cabalistici trovati
da lui su un libro vecchio, vincesse al lotto ogni volta che gli
piacesse di vincere. A qualcuno aveva anche regalati dei numeri
buoni, ma il negromante era geloso e non si lasciava pigliare da
tutti.
È in casa del prete Cirillo che noi
troviamo ora «u barone», che durante le feste di Pasqua non aveva
perduto il suo tempo.
«U prevete» offrí una sedia di
legno colle paglie rotte, andò a chiudere l'uscio ben bene, e tornò
a sedere davanti a un tavolino ingombro di carte e di libri vecchi.
Allora disse «u barone»:
- Avete
pensato, don Cirillo?
- Ci ho
pensato.
- E la villa
l'avete veduta?
- L'ho
vista, eccellenza.
- Vi
piace?
- Poco mi
piace, ma non son lontano dall'acquistarla. Vi do ventimila lire,
eccellenza.
- Voi
fareste bestemmiare un eremita, don Cirillo. S'era detto
quarantamila in principio, poi trenta, ora dite venti, per il
sangue di… - «U barone» cominciò a sfilare
bestemmie.
- Ebbene ve
ne darò trenta, - interruppe il prete che non amava le brutte
parole, - ma voi dovete dimostrarmi che la casa è netta da ogni
ipoteca.
- Io vi ho
giurato che essa è netta come questa mano e un gentiluomo non giura
due volte.
- Un
gentiluomo non ha bisogno di giurare. Bastano i
documenti.
- Voi
condurrete con voi il vostro notaio.
- La villa
non l'acquisto per me e nemmeno coi denari miei. Che cosa devo
farne io, povero servo di Dio, di una
villa?
- Uh, chi vi
crede? si dice che avete il pagliericcio pieno
d'oro.
- Guardate,
in nome di Dio, se questa è la casa dei ricco
Epulone.
- Si dice
che voi avete i numeri del lotto.
- Anche
questa è una calunnia della gente ignorante e beffarda. Se io
avessi i numeri, sarei ricco, e, se fossi ricco, non vivrei di una
piccola messa e sui poveri morti in mezzo a una gente che mi
perseguita.
- Non è vero
che voi vincete un terno o un quaterno tutte le
settimane?
- O pazienza
di Dio! e voi potete credere, eccellenza, a queste favole, voi un
uomo di mondo? Una volta sola per salvarmi dalle minaccie dei miei
nemici ho regalato dei numeri buoni che hanno vinto, e da quel dí
non ho più pace, nemmeno sull'altare. Sí, fin nella chiesa sento la
voce delle donne che dicono: «O pe l'ammore de Dio damme tre
nummere! Fallo pe San Gennaro beneditto!».
Prete Cirillo parlava con
affanno, con paura, con sincerità, aprendo le dieci dita di legno,
tremolanti in aria.
- Io posso salvarvi da queste
persecuzioni, - disse il barone.
- Questo gennaio una masnada
di camorristi mi ha sequestrato il corpo e mi ha tenuto rinchiuso
in un sotterraneo, minacciandomi di morte e battendomi colle
catene, se io non davo i numeri.
- Li avete
dati?
- Ho
invocato tanto la Madonna del Carmine e il divino Spirito che mi
illuminassero e mi salvassero. Li ho dati.
- Son
venuti?
- Tutti.
«U barone» alzò la testa e una
grande meraviglia gli gonfiò gli occhi. A guardarsi intorno c'era
proprio da credere d'essere nella casa del
mago.
- Fu la
bontà divina che mi ha voluto salvo e non già qualche virtú
cabalistica, come crede la gente: ma da quel giorno la mia pace è
morta. Le mie scale son sempre assediate di poverelli che
vogliono li
nummeri e devo spesso rifugiarmi in
luogo sacro per non essere preso un'altra volta, incatenato e
torturato.
- Ebbene, io
vi aiuterò, don Cirillo, ma voi dovete essere piú giusto e star
saldo alle quarantamila lire.
- Voi
aiutate me, io aiuto voi, eccellenza. Voi salvate me dalle mani dei
tristi, io salvo voi… dalla prigione.
«U barone» si mosse dalla
sedia e girò intorno gli occhi spaventati, alzando un poco un certo
bastone di canna col manico d'argento, a cui di tanto in tanto
appoggiava la bocca.
- Non è
forse vero che voi dovete per la domenica
in albis restituire
una somma che non trovate piú né in cielo, né in
terra?
- Voi siete
un padre inquisitore, - mormorò il barone
torbido.
- Io dovevo prendere le mie
informazioni, non è giusto? Non per questo rinuncio ad aiutarvi;
anzi, vi dico, aiutiamoci insieme. Voi avete bisogno di
quindicimila lire e io ve ne do trenta. Ve ne darei anche quaranta,
se non avessi scoperto che c'è anche un'ipoteca del marchese di
Vico Spiano.
- Ha ragione
la gente, voi siete un grande strologo e un grande cabalista, -
disse ridendo il barone, alzando ancora un poco il suo
bastone.
- Dovevo
prendere le mie precauzioni, benedetto. E non è forse vero che vi
aiuto? il palazzo non lo piglio per me e chi verrà ad abitarlo
dovrà spendere altrettanto per adattarlo. Certo che un piccolo
guadagno lo devo fare anche per amore dei poverelli che saranno i
miei eredi: ma il guadagno vero per me è una condizione che mi
permetterà di vivere in campagna, in luogo sicuro, lontano dalle
persecuzioni, dove potrò pensare anche ai bisogni dell'anima mia
peccatrice.
- Io son
sicuro che voi farete di tutto perché anche l'anima mia non vada
perduta, - disse il barone, raddolcendo la voce e fingendo una
improvvisa compunzione. - Sí, voi sapete che io sono rovinato e che
non mi resta piú che Santafusca, ultima trave di un naufragio. Se
voi non mi aiutate, io dovrei abbruciarmi le
cervella…
«U barone» trasse il
fazzoletto e se lo passò tre volte sulle pupille con meraviglia
grande di prete Cirillo, che non aveva mai veduto piangere nessuno.
E ora quell'empio, peccatore, quel maledetto bestemmiatore di Dio,
quello sciagurato libertino, sull'orlo di un precipizio nefando,
pregava lui, povero servo di Dio, di aver pietà dell'anima
sua.
Un non so che di tenero e di
compassionevole risonò al di sotto della fodera metallica di
quell'anima avara. Raddolcendo la voce
soggiunse:
- Io vi
salverò l'anima e il corpo, barone di Santafusca, e se potrò
collocare la villa con vantaggio, son uomo giusto e mi ricorderò
dei vostri bisogni. Ora voi lasciate subito Napoli e io porterò
domani al canonico le quindicimila lire. Giovedì, giorno 4, vengo
alla Villa e vi porto il resto e do un addio a questa maledetta
città, che è diventata il mio inferno. Ho bisogno di alcuni giorni
per accomodare le cose mie e spero che Dio mi aiuterà a salvar voi
e a salvar me.
- Io penso
proprio che Dio benedetto vi abbia mandato sulla mia strada, -
disse il barone, fingendo ancora un'anima compunta e stracciata dal
dolore. - Vi aspetto alla Villa e badate che nessuno si accorga
della vostra partenza. La gente verrebbe a perseguitarvi fino in
paradiso per avere i numeri.
- Lo so, ho
già studiato il modo dì ingannare i
curiosi.
- Ma
portatemi lì denari, per amor di Dio, perché io muoio di
fame.
- E voi
pensate al notaio.
- Conoscete
don Nunziante?
- Molto
bene, è un galantuomo.
- Lo
condurrò con me e stenderemo il contratto. Addio, don
Cirillo.
- Che il
Signore vi aiuti, eccellenza. A giovedí.
Prete Cirillo chiuse in fretta
l'uscio, perché la gente non avesse a udire le sue combinazioni e
si fregò allegramente le mani come chi sa di aver fatto un buon
affare. E veramente il furbo vecchietto aveva coltivato con malizia
l'orto del diavolo. Egli ragionava cosí:
«Il barone ha bisogno di
denaro e non può tirare in lungo le trattative. La villa è
desiderata da monsignor arcivescovo, che vuole collocarvi un
seminario e un collegio teologico. Monsignor vicario era già
incaricato di parlarne al barone e l'avrebbe già fatto, se le
funzioni della settimana santa non avessero impedito il degno
prelato.
«La Sacra Mensa è disposta a
spendere fin centomila lire, perché la posizione è stupenda, né
lontana, né troppo vicina alla città e può anche servire di
villeggiatura a Sua Eminenza.
«Se arrivo a tempo a stringere
il contratto prima della domenica in
albis, una volta diventato padrone
dello stabile e scaricata l'ipoteca del marchese di Spiano, ho,
come si dice, il coltello pel manico. Trenta e dieci fanno
quarantamila lire, che posso, nel giro di pochi giorni, cambiare in
cento. Ne spendessi anche cinquantamila, è sempre un affare
luminoso… ».
Chiuso nel suo bugigattolo, in
mezzo allo squallore della piú sordida avarizia, l'anima rugginosa
del vecchio prete mandava degli splendori. Schiacciandosi e
fregandosi i palmi delle mani, pensava che avrebbe potuto chiedere
anche centoventimila lire all'arcivescovo e salvare per sé il
diritto di una stanza nel collegio coll'obbligo di una messa
quotidiana, tavola comune e pulizia di letto. Pensava ancora che al
marchese poteva limitare il conto, mostrando che il barone era un
uomo rovinato, e così colla scusa di salvare un'anima, avrebbe
potuto persuadere il canonico del Sacro Monte delle Orfanelle a
contentarsi di una mezza somma e a mettere la cosa in
tacere.
Prete Cirillo vedeva crescere
il suo mucchio da tutte le parti e la faccia di pesce fritto
pigliava nella luce giallognola della finestra una fosforescenza di
vecchia moneta d'oro. Al barone non restava che di bere o di
affogare.
Tirò innanzi un grosso volume,
una «Summa theologica» in folio del grande Aquinate, che gli
serviva di registro e di scatola, e cominciò coll'unghie gialle a
ripassare le lunghe liste dei suoi crediti, vedendo quali poteva
esigere subito, quali girare a un pignoratario suo compare, detto
Cruschello, coi quale era in vecchi rapporti
d'affari.
Corse coll'occhio avidamente
sulle colonne in cui erano scritti i numeri delle sue cartelle,
banco di Napoli, rendita dello Stato, fondiaria, ferrovie
meridionali, tramways napoletani, ecc., e in mezzo molte quietanze
e boni di pegno, garanzie, piccole ipoteche, cambiali, pagherò, che
tenevano tutto il posto d'un quaderno strappato, quello in cui il
dottor Angelico parla dell'«habitus operativus». Raccolse, strinse
con un legaccio quel tesoro di carte unte, chiuse il libro con un
giro di stringa e lo nascose in un baule ferrato che teneva sotto
il letto, legato con una catena al muro.
Indossò il mantello, mise in
capo il suo vecchio tricorno e uscí colle solite precauzioni,
desiderando di trovarsi un'ora con
Cruschello.
Della gente non prese alcuna
soggezione questa volta: anzi il vecchio cabalista era disposto a
burlarsi una buona volta de' suoi
persecutori.
- O don
Cirillo, o santo prete, dammeli tre numeri e che la Madonna dei
Carmine ti aiuti… - disse una vecchia spettinata, che filava
davanti a un usciolino.
- Ve', ve'
là «u prevete», e quando me date li nummeri? - gridò un acquaiolo,
padre di sette creature.
- Se li
avessi, ma non son certi… - rispose «u
prevete».
- Dammeli,
dammeli.
- Non m'è
venuto l'oroscopo 'sta settimana. C'è Saturno in cielo che ingombra
il Capricorno. - Prete Cirillo rideva profondamente in sé della
burla che giocava alle megere e ai prepotenti del vico. - Pure
provate il 12 e il 77, ma debolmente giocate, perché li vedo
oscuri.
- Dio ti
benedica, omo santo…
E il sant'uomo rideva fuggendo
per le strade, col mantello al vento, coi cappello svolazzante in
aria, pensando che prima dell'estrazione ei sarebbe stato lontano
un'ora da Napoli e che avrebbe vinto davvero il suo terno. Il
poverino non immaginava nemmeno che sarebbe caduto in bocca al
lupo.